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Reddito, libertà, lotta

Ragioniamo sul reddito di base a partire dalla convinzione che il lavoro sia sottrazione di tempo di vita da parte del capitale. Loro le regole, loro le tempistiche e, in buona parte, loro le condizioni salariali. Sottrazione di tempo di vita perché nella sua organizzazione contemporanea il capitale si appropria del nostro tempo in maniera sempre più invasiva, travalicando abbondantemente le ore scritte su qualunque contratto. Con l’avvento dell’epoca digitale i PC si sono trasformati da strumento in estensione dei nostri corpi facendosi tascabili; i social sono rapidamente mutati da simpatiche comunità di ex alunni o di amici della campagna a luogo reale e pubblico da dove cercare lavoro e dove fare buona impressione a chiunque ci guardi. Il passaggio successivo sono state le domande che in moltx ci siamo postx sui Big Data fino allo scandalo di Cambridge Analytica. Da quel momento tutto è definitivamente cambiato, abbiamo capito che i nostri dati sono diventati una merce e che noi – non solo il nostro lavoro – siamo diventati una merce. E valiamo parecchio. Non si spiegherebbe altrimenti l’enorme accumulazione di capitale da parte delle grandi compagnie che si occupano proprio di analizzare, organizzare e rivendere i nostri dati. A noi sono rimaste le pizzate con gli amici della campagna.

Le rivendicazioni sul reddito di base partono da questo, dalla consapevolezza che produciamo ricchezza anche dal nostro divano, ma il divano dobbiamo comunque comprarlo coi soldi che guadagniamo recandoci a lavoro ogni mattina. Nel contempo, il lavoro vero, quello del sudore, delle mani sporche, delle ore insonni, versa in condizioni tremende. Contratti saltuari, discontinui, in nero, finte partite IVA; e ancora contratti a progetto, collaborazioni occasionali, ritenute d’acconto e chi più ne ha più ne metta. Luoghi di lavoro parcellizzati, orari scritti sui contratti e disattesi di default. La normalità per molti di noi è questa e le strutture sindacali faticano a guadagnarsi il giusto spazio. Per non parlare di tutto il lavoro di cura e riproduzione a cui Stato e padroni demandano tutto ciò da cui non riescono a estrarre profitto e che condanna milioni di donne, ma anche di uomini, alla dipendenza e alla subalternità.

Proprio perché ci troviamo in un dibattito dove sembra che alcune rivendicazioni ne escludano altre, sottolineiamo il fatto che non vediamo conflitto tra le richieste di reddito di base e le rivendicazioni salariali o di riduzione degli orari o di sicurezza sul lavoro o di ritmi produttivi sostenibili. Dando più valore al nostro tempo libero non possiamo che darne di più anche a quello di lavoro. Se le nostre vite valgono a prescindere, se percepiamo un reddito solo per il fatto di non aver altro sostentamento, siamo meno ricattabili. Il reddito incondizionato è un pilastro, l’altro è il salario minimo per evitare il dumping salariale. Su questi due pilastri possiamo costruire concretamente il rigetto di mansioni senza la dovuta sicurezza, i ritmi insostenibili, il dover scegliere tra salute e lavoro. Si ribalta così il concetto di esercito di sostituzione. Spostiamo l’asticella delle rivendicazioni più in alto e abbiamo una nuova arma.

Non è una strada senza rischi né senza campi di battaglia, se no ce lo avrebbero già dato. Sul campo ci stiamo già, fronteggiando quella pantomima di reddito di cittadinanza partorita dal primo governo Conte, non a caso in combutta con la Lega Nazionale dei Padroni.

Il punto sta sempre lì, nel conflitto tra capitale e lavoro, mica si sposta. Sappiamo che hanno bisogno di metterci in riga (lo dice Carletto alla fine del primo libro del Capitale), che ci hanno messo quattro secoli per convincerci che chi non lavora non mangia, che chi non lavora è unx deviatx, un problema di ordine pubblico, rendendoci poverx e mettendoci davanti alla scelta tra il lavoro e la fame, tra il lavoro e la galera. Metterlo in discussione non sarà una passeggiata di salute.

 

E i soldi dove li prendiamo? 

A dimostrazione del fatto che rimaniamo pervicacemente ancoratx al conflitto di classe, diciamo:

1. Tassando ferocemente le grandi compagnie della rete. Tanto che fanno, se ne vanno? Ricatto occupazionale? Quantx lavorano per Google o Facebook da queste parti?

2. Introducendo la Tobin tax (tassa sulle transazioni finanziarie). Sei uno speculatore? Muovi il PIL di uno stato, nemmeno piccolo, avanti e indietro per il pianeta cinque volte al giorno? Paghi! E magari a qualcuno scappa la voglia di dare i suoi risparmi a BlackRock e sciacalli vari.

3. Battendoci per una maggiore progressività della tassazione, ostinatamente ciechx e sordx a chi dice che se poi tassi troppo i ricchi quelli troveranno il modo di non pagarle.

4. Facendo una bella patrimoniale, che non sarà la soluzione, ma fa tanto cuore.

Come si vede sono tutte rivendicazioni che strabordano dai luoghi di lavoro, sono istanze sociali, culturali, storiche o chiamatele come volete. Istanze che possono portare in piazza chiunque, da chi lavora a chi è disoccupatx, a prescindere dal tipo o dalla presenza di un contratto. (Un esempio di queste eccedenze lo abbiamo avuto in Francia coi gilets jaunes)

Il reddito di base non è certo la panacea a tutti i mali, non può e non deve sostituirsi ad ogni altra rivendicazione; ma è certamente auspicabile e rappresenta un’opportunità enorme. Ed è pure possibile nel momento in cui è la controparte a doverne proporre una forma ancorché insufficiente. Il 6 maggio probabilmente uscirà il reddito di emergenza per far fronte alla crisi della domanda, nel quadro di una crisi economica che purtroppo ci aspettiamo gigantesca. Sarà comunque una forma escludente e dovremo forzare ancora la mano, allargare le maglie e pretendere che sia incondizionato. Per il capitale, la ricchezza più sicura consiste in una moltitudine di poverx laboriosx, pensiamo che anche così si possa lavorare per sottrargliela.

Sembra un buon momento per attaccare.